In pensione, ma poveri: quanto prenderemo in futuro col contributivo

10 novembre
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Per il 2022 il destino delle pensioni è scritto, ma il confronto governo-parti sociali è solo all'inizio e i sindacati insistono su un'età precisa: 62 anni. In ballo però c'è un tema molto più ampio: col contributivo puro andare in pensione potrebbe voler dire avere assegni sotto la soglia di povertà.

In pensione a 62 anni: i sindacati non mollano

"È dal giorno dell'insediamento del Governo Draghi che chiediamo di aprire un confronto sui temi previdenziali - dichiara Domenico Proietti, segretario confederale Uil. - Oggi il ministro del Lavoro dichiara la volontà di aprire tale confronto. La Uil pensa che ciò debba portare ad introdurre nella legge di Bilancio una flessibilità più diffusa di accesso alla pensione intorno a 62 anni, anche utilizzando le categorie dei lavori gravosi individuate dalla Commissione istituzionale. A riguardo occorre incrementare le risorse, diminuire da 36 a 30 gli anni di contribuzione per alcuni settori lavorativi. Contemporaneamente - continua Proietti - vanno mandati in pensione i lavoratori delle categorie gravose con 41 anni di contribuzione. Bisogna riaccendere i riflettori sulla previdenza complementare prevedendo un nuovo semestre di silenzio assenso per incrementare le adesioni ai fondi pensione. Una risposta positiva del governo su questi temi renderebbe credibile l'avvio del tavolo di confronto che deve riguardare l'insieme delle questioni, a cominciare dalle future pensioni dei giovani, dalla valorizzazione del lavoro di cura delle donne ai fini previdenziali e dal riconoscimento di un anno nei requisiti di accesso per ogni figlio". 

Ci sono come si vede molti temi sul tavolo. Riprendere subito il confronto con il governo e basta evocare lo sciopero generale. Il segretario della Cisl, Luigi Sbarra, lo spiega in l'intervista a La Stampa. ''La mobilitazione del sindacato deve essere costruttiva e responsabile -avverte Sbarra- evocare continuamente lo sciopero rischia di sminuirne il valore''. Sbarra sottolinea che ''con il governo bisogna riallacciare i fili del dialogo, perché sulla manovra è stato molto scarso. E' necessario partire dai contenuti della nostra piattaforma sulle pensioni, che il ministero del Lavoro conosce benissimo. Ma ci aspettiamo aperture anche su investimenti e occupazione, fisco e Pnrr, ammortizzatori e politiche attive, Pa e scuola. Abbiamo bisogno di un grande accordo governo-imprese-sindacato, che ponga le basi per la crescita e una nuova politica industriale, che agganci le grandi transizioni in atto assicurando rilancio occupazionale. La vera sfida è quella della partecipazione per qualificare le relazioni sindacali''. ''Abbiamo bisogno di un metodo di confronto stabile con il Governo, questo è chiaro -continua Sbarra-. Ma gli accordi si possono fare anche in 48 ore, se c'è comune volontà e coerenza nei comportamenti, come è accaduto per i protocolli su salute e sicurezza e i patti su pubblica amministrazione e scuola. Sulla manovra il confronto è stato scarso e le lacune della legge di bilancio risentono proprio di questo deficit. Da solo anche questo governo, per quanto autorevole, non ce la può fare. La coesione sociale oggi è indispensabile per dare profondità ed equità alle riforme''.

Come cambiano le pensioni nel 2022

Le principali modifiche per il 2022 riguarderanno Quota 102, un ulteriore allargamento alle donne e a nuove mansioni gravose del perimetro dell’Anticipo pensionistico sociale (Ape sociale) e di quello per le uscite anticipate dei dipendenti delle Pmi, che al momento è limitato a quelle in crisi. Quota 102 dà la possibilità di uscire dal lavoro con almeno 64 anni d’età e 38 di contribuzione.

Opzione donna resta, confermatissima e in futuro potrebbe diventare strutturale. Sulla "salvaguardia pensionistica" delle lavoratrici ci sarebbe una maggioranza trasversale in Parlamento. Nel 2022 intanto non vedrà salire a 60 anni la soglia anagrafica d’accesso, a differenza di quanto era stato indicato nel testo d’ingresso del disegno di legge di bilancio a fine ottobre.

La Lega punta forte sull’estensione a tutti i lavoratori delle aziende con meno di 15 dipendenti del Fondo per le uscite anticipate. Infine, ci potrebbe essere la proposta, sponsorizzata da Pd. Leu, M5S e sindacati, per introdurre una norma di principio per aprire la strada a una pensione di garanzia per i giovani.

Cosa vuol dire ritornare al contributivo

Il problema non è di poco conto, perché per esplicita intenzione del premier Draghi, dal 2023 si torna al percorso contributivo e questo per le nuove generazioni, in molti casi, vorrà dire un assegno basso e ad un’età molto avanzata. Dal 2032 tutti i nuovi pensionati riceveranno assegni basati sul contributivo puro, ovvero prenderanno quanto avranno versato negli anni, avendo cominciato a lavorare dopo il 1996 cioè dall’entrata in vigore della riforma Dini.

Semplificando al massimo, si intende con metodo retributivo il calcolo dell’assegno pensionistico sulla base delle ultime retribuzioni, mentre con metodo contributivo si tiene in considerazione l’ammontare dei contributi effettivamente versati.

In base ad alcune stime per il 60% di chi è entrato nel mondo del lavoro a metà degli anni ‘90, l’importo sarà sotto la soglia di povertà considerando anche che non è prevista un’integrazione al minimo. In questo contesto contributivo si fanno strada ipotesi per un’uscita anticipata che possa valere per tutti: ma prima si lascia la propria attività, meno contributi si versano, più magro sarà l’assegno. Anche di questo i giovani siano avvertiti.

Il futuro è un ritorno al contributivo, non ci sono dubbi. "Faremo una battaglia molto forte sulle pensioni, non può più passare il principio che si spendono soldi sulle pensioni. Se i sindacati si mobiliteranno noi faremo una grande mobilitazione per i giovani. Non possiamo più andare avanti con questo sistema" ha detto Carlo Calenda nel suo intervento alla presentazione su Facebook di 'Un programma per l'Italia. Per un lavoro più giusto, efficiente e produttivo'. Non solo Calenda la pensa così. 

Il ritorno secco al sistema contributivo significa dunque che l'assegno pensionistico sarà calcolato solo in base ai contributi effettivamente versati nelle casse previdenziali. C'è l'idea di aprire un tavolo con le parti sociali sulla previdenza per una riforma di sistema, ma in assenza di novità tornerà la legge Fornero. Il contributivo più che il futuro è il presente.  La riforma delle pensioni Fornero del 2011 ha predisposto numerose modifiche al sistema previdenziale italiano, segnando il passaggio definitivo dal metodo retributivo a quello contributivo. Con la Fornero si estese il calcolo contributivo anche a chi era stato “graziato” dalla Riforma Dini, ovvero a tutti quelli che, al 31 dicembre 1995, avevano almeno 18 anni di anzianità di lavoro. Dal 1° gennaio 2012 il metodo contributivo è diventato l’unico metodo di calcolo per l'assegno pensionistico.

Assegni più poveri col contributivo

Il passaggio dal sistema di calcolo retributivo al sistema contributivo "puro" ha conseguente sugli assegni. E' evidente, ma val la pena rimarcarlo e portare esempi concreti. Un'elaborazione recente evidenzia un taglio netto degli assegni di circa il 37% rispetto al vecchio regime retributivo. Ci sono dati recenti di uno studio nella provincia di Verona secondo cui sono già 12.825 (circa il 6% del totale delle pensioni da lavoro) le pensioni pagate con il sistema contributivo "puro", cioè calcolate sulla base dei soli contributi versati. La grande maggioranza di esse (9.512 pensioni, con importi medi di appena 228,68 euro) appartengono al fondo dei lavoratori parasubordinati, una categoria spuria (né dipendenti né autonomi) nata nel 1995 con l’introduzione della gestione separata dell’Inps.

Nel medio periodo il contributivo puro è destinato a diventare maggioritario in tutti gli altri fondi pensionistici con risultati che "sono già sotto ai nostri occhi - ha spiegato Adriano Filice, segretario generale del sindacato dei pensionati Spi Cgil di Verona - Se ad esempio prendiamo il fondo dei lavoratori dipendenti possiamo facilmente constatare che l'importo medio delle pensioni erogate con il sistema contributivo puro risulta del 37% più basso rispetto all'importo medio delle pensioni pagate con il vecchio sistema retributivo. L’assegno medio mensile passa infatti dai 1.132 euro mensili del vecchio regime retributivo ai 709 euro medi mensili del nuovo sistema contributivo puro. Analoghe riduzioni conoscono gli altri fondi, dagli artigiani ai commercianti ai coltivatori diretti. Questo taglio del 37% è destinato ad impennarsi nel futuro date le condizioni delle nuove generazioni di lavoratori e lavoratrici entrate nel mondo del lavoro negli ultimi decenni, enormemente più esposte rispetto al passato a buchi contributivi, periodi di disoccupazione o inattività dovuti a precarietà del lavoro, instabilità del quadro economico, nonché dalla perdurante carenza di servizi alle famiglie dalla inefficacia delle politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia", conclude Silice.

Fonte: www.today.it

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