Le nuove pensioni e chi lascerà il lavoro

28 aprile
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Aquanto ammontano e quante sono le nuove pensioni? Quelle con decorrenza nel periodo gennaio-marzo 2022 sono state 180.757 in totale, per un importo medio mensile di 1.242 euro: anche in questo caso prevalgono per numero le pensioni femminili, 94.926 contro le 85.831 maschili, a fronte però di un importo medio mensile più basso (991 euro contro i 1.520 euro degli uomini). Lo rende noto l'Inps che ha pubblicato oggi l'osservatorio sul monitoraggio dei flussi di pensionamento, relativo alle pensioni con decorrenza nel 2021 e nei primi tre mesi del 2022, con rilevazione al 2 aprile 2022. Tali valori si riferiscono alle pensioni di vecchiaia - compresi i prepensionamenti per il fondo pensioni dei lavoratori dipendenti (FPLD) e gli assegni sociali - alle pensioni anticipate, a quelle di invalidità e a quelle ai superstiti di tutte le gestioni.

Sono 860mila le nuove pensioni con decorrenza nel 2021

Il totale delle pensioni con decorrenza nel 2021 è di 860.501, per un importo medio mensile alla decorrenza di 1.210 euro: di queste, 480.999 sono riferite a donne, per un importo medio mensile di 1.024 euro, e 379.502 a uomini, con 1.446 euro mensili. In particolare, per quanto riguarda le singole categorie, le pensioni con decorrenza 2021 sono state: 279.256 pensioni di vecchiaia (compresi gli assegni sociali), 289.053 pensioni anticipate, 47.556 pensioni di invalidità e 244.636 pensioni ai superstiti. Nei primi tre mesi del 2022: 60.139 vecchiaia, 71.000 anticipate, 5.469 invalidità e 44.149 superstiti. Analizzando le singole gestioni, il fondo pensioni dei lavoratori dipendenti ha totalizzato 371.309 pensioni nel 2021 e 85.374 nei primi tre mesi del 2022; seguono la gestione dipendenti pubblici con rispettivamente 162.160 e 22.516, artigiani (92.401 e 19.775), commercianti (80.941 e 17.292), parasubordinati (39.082 e 7.843) e coltivatori diretti, coloni e mezzadri (38.844 e 8.332). Gli assegni sociali sono stati 75.764 nel 2021 e 19.625 nei primi tre mesi del 2022.

Riforma delle pensioni: chi lascerà il lavoro

La riforma delle pensioni è ancora avvolta dalla nebbia. L'ipotesi di arrivare a una sintesi entro la fine di aprile è ampiamente tramontata. Il governo deve mantenere l'attenzione sulle riforme strutturali, con particolare riguardo "all'assetto del sistema pensionistico per il quale, nel pieno rispetto dell'equilibrio dei conti pubblici, della sostenibilità del debito e dell'impianto contributivo del sistema, occorrerà trovare soluzioni che consentano forme di flessibilità in uscita ed un rafforzamento della previdenza complementare" ha detto il ministro dell'Economia, Daniele Franco, nell'introduzione al Def. "Occorrerà, altresì, approfondire le prospettive pensionistiche delle giovani generazioni".

Ovvero, nessun cenno concreto alla riforma delle pensioni è presente nel Documento di Economia e Finanza (DEF) approvato di recente dal governo Draghi. Il Def approvato dal governo ignora possibili correttivi alla legge Fornero (che tornerebbe in vigore così com'è dal gennaio 2023), che potrebbero però essere affrontati dopo Pasqua nel tavolo in programma (salvo imprevisti) con le parti sociali. Le ipotesi concrete non mancano di certo.

Cosa succederà? Da gennaio 2023 Quota 102 non dovrebbe essere rinnovata. La riforma delle pensioni darà il là, nelle intenzioni dei sindacati e dell'esecutivo, a un nuovo "sistema" per lasciare il lavoro superando la legge Fornero. Il governo propone una piccola penale, un mini-taglio sull'assegno in cambio di uno sconto sull'età pensionabile. Ma i sindacati per ora nicchiano. 

I sindacati puntano alla flessibilità da 62 anni

Le parti sociali, dal canto loro, da tempo hanno messo nero su bianco le richieste: vorrebbero l'estensione della flessibilità a partire dai 62 anni o con 41 di contributi a prescindere dall'età, permettendo ai lavoratori di poter scegliere quando andare in pensione senza penalizzazioni per chi ha iniziato a versare prima del 1996. Tra le ipotesi anche la modifica del meccanismo di adeguamento alla speranza di vita. Cgil, Cisl e Uil puntano su condizioni più favorevoli e strutturali per l'accesso alla pensione delle categorie più deboli, ad esempio gli usuranti che rientrano nell'Ape sociale, che potrebbe essere ampliata, diventando quasi strutturale. Le indiscrezioni portano davvero a una riforma con i "64 anni" anagrafici al centro. Ma procediamo con ordine.

E poi c'è il sempiterno (almeno per quel he riguarda la frequenza di comparsa nelle varie indiscrezioni di stampa) piano Tridico. Il presidente dell'Inps, ha più volte rilanciato la proposta di erogare a chi lascia il lavoro a 64 anni solo la parte contributiva dell'assegno maturata fino a quel momento, per poi pagare la quota retributiva della pensione una volta raggiunti i 67 anni (il requisito di età fissato dalla Fornero). Il putno forte di questo piano è la sostenibilità per le casse dello stato. Secondo Tridico questo tipo di anticipo costerebbe infatti 400 milioni di euro l'anno. Una spesa molto inferiore rispetto ad esempio ai 10 miliardi di "Quota 41". A livello generale, il piano delle due quote di Tridico introduce un principio di equità sul quale si potrebbe trovare una convergenza, proprio perché non prevede penalizzazioni una volta compiuti i 67 anni, ma una riduzione per i soli primi 2-3 anni di pensione.

Il piano dell'esecutivo sembra più penalizzante, se si va a guardare l'importo mensile spettante. La proposta messa sul tavolo di andare in pensione prima dei 67 anni della Fornero solo con il ricalcolo dell'assegno contributivo, con finestre di uscita dai 64 anni di età con almeno 20 di contributi, non piace ai sindacati e a vari osservatori ed esperti perché il taglio del trattamento rischia di essere pari al 30% (con Opzione Donna oggi come oggi è così). Certo, il taglio dell'assegno varierebbe in base agli anni di anticipo, ma la strada è in salita. Due mesi fa sembrava possibile trovare un'intesa di massima in modo che la prima bozza di riforma delle pensioni fosse scritta in tempo per il Def di aprile, il primo gradino verso la nuova legge di Bilancio. Non è andata così: il governo potrebbe decidere nel prosieguo del confronto con le parti sociali di abbassare la quota di 2,8 volte l'assegno minimo (1.440 euro) per i lavoratori del contributivo intenzionati a uscire prima dell'età di vecchiaia e ad estendere la norma anche a chi usufruisce del misto. Ma in tal caso si deve contestualmente ragionare anche sulla pensione di garanzia per chi a 67 anni non avrebbe un trattamento pari ad almeno 1,5 volte il minimo (770 euro). E chi lascerà il lavoro a 64 anni avrebbe un taglio dell'assegno leggere, al massimo del 3 per cento per ogni anno di anticipo. Probabilmente meno.

Pierpaolo Bombardieri, segretario Uil, aveva pubblicamente apprezzato l'apertura dell'esecutivo alla flessibilità in uscita, ma avvertiva che "ipotizzare un passaggio a un sistema tutto contributivo sarebbe un'ulteriore penalizzazione per chi deve andare in pensione e l'ennesimo ritocco dei diritti acquisiti. Vorrei far notare che la media di uscita in Europa è di 63 anni, credo che l'Italia dovrebbe allinearsi". Preoccupa il rischio di taglio del 30% dell'assegno. "Fare il calcolo con il sistema contributivo abbassa l'assegno, è chiaro. Nessuno pensa di tornare a un sistema retributivo, però abbiamo un periodo di transizione in cui c'è una percentuale, ormai bassa, di lavoratori col sistema misto. Cambiare le regole adesso significa cambiare le carte in tavola".

Quota 41: l'ipotesi c'è sempre

"L'apertura del governo alla previsione di meccanismi che incentivino la flessibilità in uscita dal mondo del lavoro va nella direzione auspicata dall`UGL, tuttavia non siamo favorevoli al ricalcolo interamente contributivo. Quota 102, attualmente in vigore, scadrà a fine anno e, in assenza di una riforma previdenziale, a partire dal 2023 tornerebbe in vigore la Legge Fornero che prevede il pensionamento a 67 anni". Paolo Capone, Segretario Generale dell'Ugl, qualche tempo fa commentava così: "Come rilevano i dati dell'Inps, attualmente il sistema è sostenibile in quanto sono stati risparmiati 1,1 miliardi di euro di assegni previdenziali nel 2020 a causa dell'innalzamento della mortalità per effetto della pandemia. Il clima di incertezza continua ad alimentare i timori dei lavoratori riguardo il proprio futuro. Come sindacato Ugl, pertanto, chiediamo al governo di accelerare la riforma pensionistica ed estendere il tavolo di confronto a tutte le parti sociali. Al contempo - precisa - ci opponiamo fortemente ad un graduale ritorno della Legge Fornero e riteniamo che la soluzione migliore resti Quota 41, che prevede 41 anni di contributi a prescindere dall'età lavorativa. E' fondamentale, dunque, tutelare i diritti acquisiti dei lavoratori, garantendo, al contempo, il turnover generazionale e l`ingresso dei giovani nel mondo del lavoro".

Per avere un quadro più attendibile della riforma delle pensioni occorrerà attendere ancora. "È significativo che il Governo riconosca che bisogna introdurre una flessibilità nell'età di accesso alla pensione. Ma la Uil giudica sbagliata l'idea di legare questa flessibilità al ricalcolo contributivo che sarebbe un ulteriore penalizzazione per i lavoratori". Così Domenico Proietti segretario confederale sintetizzava il mese scorso l'esito del confronto in atto.

"In Italia da 10 anni si va in pensione a 67 anni di età, mentre in Europa la media solo ora raggiunge i 63 anni. Il tema, quindi, è quello di riallineare l'età di accesso la pensione a quello che avviene in Europa. Perseguendo, anche, la strada dei lavori gravosi e usuranti eliminando tutti i vincoli formali che hanno impedito ai lavoratori di poter utilizzare questi strumenti", spiega ribadendo la posizione del sindacato. "Si deve dare una risposta ai lavoratori precoci stabilendo che 41 anni di contributi sono sufficienti per andare in pensione a prescindere dall'età", dice ancora chiedendo che nel sistema contributivo si superino "le soglie reddituali che impongono a chi ha carriere più deboli o discontinue di andare in pensione più tardi".

Lasciare il lavoro a 64 anni: il piano c'è

La flessibilità in uscita si potrebbe raccordare (ma sarebbe una forzatura) a Quota 102, prevista dal governo Draghi solo per quest’anno, con una sorta di ponte su cui si muoverebbe la soglia anagrafica dei 64 anni (in un mix fino a dicembre con la maturazione di almeno 38 anni di versamenti), alla quale guardano da tempo i tecnici del Mef. Rimane però da calcolare il meccanismo che dovrà scattare per il calcolo dell’assegno.

Quindi si studia la sostenibilità di uscite dal lavoro a partire dai 64 anni d’età, e con almeno 20 anni di contributi, e il trattamento calcolato col contributivo totale. Ma resterebbe una sola reale differenza tra la massa di soggetti totalmente contributivi e quelli del sistema “misto”, che secondo gli ultimi monitoraggi vedrebbero in attività non più di 192mila lavoratori retributivi: la soglia minima dell’ammontare mensile del trattamento che scenderebbe a 2,5 volte il “minimo” (assegno sociale) rispetto alle 2,8 volte previste attualmente per chi è entrato nel mondo del lavoro dal 1996. A considerare il mix 64+38 (ovvero Quota 102) una via percorribile anche per il futuro è il presidente di Itinerari previdenziali, Alberto Brambilla, a patto che si preveda il collegamento con l’aspettativa di vita e il passaggio al solo contributivo.

Abbandonare le quote

C'è poi un discorso di fondo che andrà prima o poi affrontato. Una delle finalità ‘costituenti' del sistema contributivo è il pensionamento flessibile, cioè la libertà di scegliere l'età a cui andare in pensione. A parità di contributi versati, la maggior durata della prestazione spettante a chi sceglie di andare prima, è compensata dalla riduzione del coefficiente di trasformazione. In tal modo, è comunque garantita la ‘corrispettività', cioè l'equivalenza fra la prestazione complessivamente goduta e la contribuzione complessivamante versata. In realtà, la compensazione sarebbe perfetta se la longevità fosse costante. Nel qual caso, i coefficienti, benché calcolati sulla longevità osservata per le generazioni precedenti, ‘rifletterebbero' anche quella futura delle generazioni cui sono applicati. La longevità in aumento invece tende a generare coefficienti ‘obsoleti', maggiori del dovuto. L'obsolescenza aumenta al diminuire dell'età, maggiormente favorendo chi va in pensione più giovane. Le ragioni non sono banali ma le conseguenze si. La prima è che occorre evitare discriminazioni eccessive limitando la flessibilità, cioè evitando che l'intervallo delle età pensionabili sia ‘troppo ampio'. La seconda è che l'età iniziale non può essere ‘troppo giovane'. Le ‘quote' (Quota 100, Quota 102 e poi chissà) secondo vari esperti sono un istituto del tutto estraneo alla logica contributiva.

Fonte: www.today.it

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