Italia e Spagna trainano lEuropa, ma non è una "buona" notizia

17 agosto
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Quest’anno l’economia italiana crescerà più di quella tedesca, ma non è una “buona” notizia. O meglio, non è una notizia così esaltante come potrebbe apparire a una prima, superficiale lettura. Secondo un sondaggio tra diversi economisti fatto da Bloomberg, Italia e Spagna si avviano a registrare nel 2021 il ritmo più rapido di espansione economica da più di quattro decenni, sui livelli di fine anni ’70. Il prodotto interno lordo della Spagna crescerà del 6,2% nel 2021, mentre l’Italia registrerà un tasso del 5,6%. Molto meglio della Germania che dovrebbe crescere “solo” del 3,2%, ma anche dell’intera Eurozona che, in media, crescerà del 4,7%. Lette in questo modo sono cifre confortanti, se non addirittura inebrianti per l’orgoglio, tali da legittimare letture suggestive e imbevute di spirito di rivalsa: il Sud, spesso additato dal Nord come il malato d’Europa, è diventato il nuovo traino del Vecchio Continente, verrebbe da dire. In altre parole, il riscatto dei Pigs (maiali in inglese), acronimo utilizzato ai tempi della crisi del debito per definire Portogallo, Italia (e poi anche Irlanda), Grecia e Spagna per la condizione poco virtuosa delle loro finanze pubbliche, zavorrate da alti livelli di indebitamento e tassi di crescita inferiori a quelli degli Stati settentrionali. 

In realtà i dati diffusi da Bloomberg non rivelano nulla di nuovo. Già nelle previsioni di primavera della Commissione Europea e in quelle del World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale, il tasso di risalita del Pil previsto per Italia e Spagna era stato collocato al di sopra di quello della Germania. Il punto però è un altro: prendere singolarmente la crescita prevista per il 2021, senza tener conto del crollo del 2020, può dare luogo a interpretazioni forzate o distorte (il cosiddetto base effect). Perché è chiaro che più profonda è stata la caduta, maggiore è la dimensione del rimbalzo in termini percentuali. I dati, in questo senso, non lasciano molti margini di interpretazione: nell’anno del Covid, l’economia tedesca ha perso il 5,3% mentre quella italiana l′8,9%. Quella spagnola ha segnato addirittura un -10,8%. Non è un caso che per l’economia di  Berlino è previsto un ritorno sui livelli pre-Covid già entro la fine di quest’anno, per Roma invece se ne parlerà nel 2022 inoltrato, se tutto va bene e solo grazie alle prime risorse stanziate attraverso il Recovery Fund che, per la Commissione, avrà una spinta sul Pil 2021-2022 pari all′1,2%. Senza i soldi europei, un Paese su quattro - tra cui l’Italia - non riuscirebbe a tornare alle sue condizioni pre-Covid prima del 2023 se non oltre. 

I tristi primati italiani del 2020. D’altro canto l’anno scorso l’Italia ha ottenuto diversi primati ma non così esaltanti come quelli registrati in ambito sportivo e così abbondantemente celebrati in queste settimane come simbolo della rinascita di un intero Paese. Nel 2020 sono andati persi oltre 39,2 miliardi di salari e stipendi su 525 miliardi, con un calo del 7,47% sul 2019, segnando il dato peggiore nell’Ue a 27. La Germania ne ha persi appena 13 su oltre 1.500 (-0,87%). Nell’Ue a 27 il calo del monte salari, causato dai lunghi periodi di lockdown e dal ricorso agli ammortizzatori sociali, è stato solo dell′1,92%. Un calo paragonabile a quello italiano lo ha avuto, guarda caso, la Spagna con 28,37 miliardi di stipendi in meno pari a un calo del 6,44% ma con una riduzione più sostanziosa dell’occupazione. In Spagna nell’anno della pandemia si sono persi quasi 600mila occupati a fronte dei 464mila in meno in Italia (ma si tratta di numeri che non tengono conto delle nuove regole per le quali chi è in cassa integrazione da più di tre mesi non è considerato occupato). 

L’impatto del Covid sui salari si riflette tra le altre cose sui consumi. Quelli individuali effettivi degli italiani nel 2020 sono crollati per la prima volta sotto la media dell’Ue a 27. Secondo i dati Eurostat, i cittadini italiani hanno avuto consumi pari a 19.290 euro a fronte dei 19.560 della media europea. Vuol dire che rispetto al 2019 si sono persi oltre 1.700 euro (a prezzi correnti) a fronte dei mille persi della media Ue. Se il confronto viene fatto sulla spesa delle famiglie per consumi finali, quelle italiane hanno registrato un calo dell′11,8% (dato peggiore dalla crisi del 2009), quelle tedesche solo il 4,6%. Chi ha fatto peggio di Roma è ancora una volta Madrid, con una spesa per consumi delle famiglie inferiore del 15,8% rispetto all’anno prima. 

Nulla di buono nemmeno sul fronte occupazione: con la pandemia il tasso è calato in tutta Europa ma in Italia è sceso più della media, facendo registrare il dato peggiore dopo la Grecia. Stesso trend per l’occupazione femminile, ma è per quella giovanile che l’Italia ha ottenuto nel 2020 un altro triste risultato: i giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in percorsi di formazione sono aumentatati dal 22,1% del 2019 al 23,3%, dato peggiore in Europa con quasi 10 punti oltre la media dell’Ue a 27 (13,7%).

L’incertezza. I dati sulla crescita attesa per l’economia italiana sono comunque un segnale positivo e fanno ben sperare per il percorso avviato, ma la via d’uscita dalla crisi causata dalla pandemia è lastricata di incognite. C’è prima di tutto l’incertezza legata alla variante Delta, ormai diventata predominante anche nel Vecchio Continente che solo una capillare campagna di vaccinazione, alle prese con il dilemma delle terze dosi, riuscirà ad arginare. Come detto, poi, le risorse del Recovery Fund avranno un impatto concreto sulla crescita solo se verranno rispettati gli impegni assunti e i tempi previsti per la “messa a terra” dei progetti finanziati dall’Ue, pena la chiusura del rubinetto da parte di Bruxelles. Tuttavia anche sulla riuscita del Next Generation Eu peserà il costante aumento dei prezzi di materie prime e container: se da un lato sono l’effetto dei colli di bottiglia che si continuano a registrare lungo le catene di fornitura, e quindi rappresentano una minaccia per i tempi della ripresa, dall’altro rischiano di avere un impatto indesiderato anche sulla riuscita di diversi progetti (si pensi al settore edile con il Superbonus al 110%) finanziati dal Recovery Fund. La madre di tutte le incognite, però, sarà la gestione della montagna di debito pubblico, esploso a causa della pandemia. Nel 2021, il rapporto debito/Pil dell’area euro ha sfondato quota 100% (102,4% secondo Eurostat), e l’Italia, che ne ha uno storicamente elevato, oggi ha segnato un nuovo record sfiorando i 2700 miliardi di euro. Secondo le stime europee, quest’anno il rapporto debito/Pil di Roma sfiorerà il 160% del suo prodotto interno lordo. 

Una cifra imponente che richiama giocoforza il dibattito politico a livello europeo sul Patto di Stabilità, quell’insieme di norme (tra cui il tetto del debito/Pil al 60%) che disciplinano i percorsi di aggiustamento finanziario per i Paesi che non rispettano i target prefissati. L’architettura fiscale dell’Eurozona è da tempo finita sotto accusa da parte dei Paesi del Sud Europa, quelli più penalizzati dalle correzioni, tagli di spesa e aumenti delle entrate richiesti ogni anno da Bruxelles con l’effetto, secondo un numero sempre maggiore di economisti, di strozzare ogni tentativo di ripresa. Non a caso una delle prime decisioni assunte dalla Commissione Europea all’alba del Covid è stata quella di sospendere il Patto, perché evidente che con troppi lacci fiscali molti Paesi non avrebbero potuto mettere in campo gran parte degli interventi a sostegno della propria economia. Entro il 2022 bisognerà trovare un compromesso all’Eurogruppo sulla revisione delle regole, in alternativa sarà arduo per la Commissione continuare a giustificare la loro sospensione. Secondo il premier italiano Mario Draghi, “le attuali norme sono inadeguate, lo erano e lo sono di più per la uscita dalla pandemia. Dovremo concentrarci su un forte slancio della crescita per assicurare la sostenibilità dei conti pubblici”. Il dibattito, però, “non è ancora partito”. In verità c’è già chi si sta muovendo, seppur in maniera informale, in vista del grande scontro: in questi giorni il governo dell’Austria - tra i quattro Paesi “frugali” insieme a Paesi Bassi, Finlandia e Svezia - sta prendendo contatti con altre cancellerie europee per cercare alleanze nella ferma opposizione alla revisione delle regole fiscali, e sostenere il ripristino di quelle attualmente in vigore, seppur momentaneamente sospese. Anche Helsinki ha già fatto sapere recentemente che le norme sulla disciplina di bilancio vanno bene così come sono. In altre parole, per vedere se davvero il Sud, sotto la leadership di Mario Draghi, è diventato il nuovo traino d’Europa bisognerà guardare, più che a isolati picchi percentuali del prodotto interno lordo, alla sua reale capacità di persuasione nel processo europeo di rottamazione dell’austerità fiscale.

Fonte: www.huffingtonpost.it

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